Massimo Angelini
LA SACRALITA’ DEL CORPO E LA SUA DIMENTICANZA
Montesquieu.it, 2013
Se qualcosa è sacro, il corpo umano è sacro.
Walt Whitman [1]
L’immagine del corpo come “tempio”, come luogo sacro, si riverbera comune in molte culture: ne parla Ippocrate e la premette al dovere di curare il corpo e di rispettarlo sempre;[2] sotto un diverso aspetto, nella prima Lettera ai Corinzi, Paolo da Tarso afferma che il corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi:[3] prima di lui nel vangelo di Giovanni, Gesù parla del proprio corpo come tempio che in tre giorni farà risorgere;[4] Abdu’l Bahà sostiene che «l’uomo è un tempio di Dio, non è un tempio umano».[5] Queste, ciascuna sommamente autorevole all’interno della propria tradizione di pensiero, sono solo alcune tra le numerose testimonianze di una metafora che si è riverberata sotto molte latitudini, in occidente come in oriente: l’analogia con il corpo umano riguarda sia la forma della chiesa medievale, sia quella del tempio induista.
Agli inizi del sec. XIV, Durando da Mende scrive:
La disposizione materiale della chiesa rappresenta il corpo umano, perché il cancello o il luogo in cui si trova l’altare rappresenta la testa, e la croce, da una parte all’altra, le braccia e le mani; infine, l’altra parte che si sviluppa a Occidente rappresenta il resto del corpo.[6]
E talvolta è una metafora così stringente da fare apparire i due termini quasi sinonimi: come il tempio è dimora della divinità, così – diversamente consacrato, diversamente purificato – lo è il corpo.[7] Di questo accostamento tra tempio e corpo al di là del richiamo dotto che se ne può fare, al di là di un’evocazione poetica, cosa resta oggi?
Due premesse.
1. Se ogni cosa che vive partecipa di una natura simbolica, il corpo vi partecipa in maniera eccellente. E, visto in chiave ontologica, come il simbolo unisce e rende compresenti i due mondi,[8] differenti aspetti di un’unica realtà, così il corpo è un tramite, un ponte, una finestra. È un tramite fra cosa è interno e cosa è esterno, il corpo che unisce e rende compresenti e porta a riconoscere consustanziali l’io e il mondo. Ma è anche un tramite fra cosa è visibile e cosa è invisibile, fra la dimensione materiale della realtà e quella spirituale.
Come ciascun simbolo, il corpo appartiene a questo nostro mondo e all’altro, compartecipa di entrambi e perciò, a rigore, ci appartiene parzialmente, temporaneamente. Questa non è un’affermazione giuridica, ma un dato di esperienza. L’esperienza della malattia ci insegna che non disponiamo del corpo in piena libertà, perché ogni momento può accadergli qualcosa che è indipendente dalla nostra volontà. L’esperienza dell’invecchiamento ci insegna che si logora, si logora progressivamente, decade, e lo fa in accordo alla nostra accettazione o contro il nostro desiderio. Poi, l’esperienza della morte ci insegna che dobbiamo restituirlo alla terra e alla ruota della vita. E lo restituiremo.
Del corpo, comunque, non siamo artefici, se non in misura parziale. E, comunque, non è distinto da noi stessi, da quell’unità nella quale ci riconosciamo individualmente, benché tanta parte della civilizzazione che informa i nostri comportamenti induca a sentirlo separato, a volte a sentirsene prigionieri, comunque a sentirlo altro da un “io” che così sentendo si mostra scisso dalla realtà, figlio di un’astrazione: la stessa che c’induce a conoscere e pensare non nel segno dell’unità (cioè in modo, letteralmente, simbolico), ma nel segno della separazione (cioè in modo, letteralmente, diabolico). [9]
L’approccio simbolico è per propria intima natura un approccio realista: in parte, perché comprende la realtà come un dato unitario, pur nei suoi differenti aspetti e con la consapevolezza dei differenti piani dell’esistenza; in parte, perché è legato alle cose così come sono, senza riduzioni, senza rimozioni; ma anche perché risolve lo scisma ontologico che si forma con la separazione fra corpo, mente e anima: uno scisma profondo, lacerante, consumato sotto lo stesso segno di separazione, diabolico, che divide il bello, dal bene e dal vero. [10] Fuori dall’approccio simbolico – unitario e realista – si scivola fatalmente nell’astrazione o nel regno dell’immaginazione oppure in quello della virtualità, e si dà spazio alla frantumazione della realtà e, dal punto di vista della conoscenza, alle prospettive di sapore dualistico.[11]
La mutilazione del corpo dall’unità dell’essere, la sua degradazione o addirittura il suo rifiuto informano il carattere delle correnti ascetiche, ma anche del pensiero di matrice gnostica o di eredità agostiniana, che affermano la dimensione spirituale come unica vera realtà, di fronte alla quale il corpo è peso, ostacolo, impedimento al perfezionamento, ricettacolo di corruzione, occasione di perdizione, e pertanto deve essere mortificato, rimosso. Nel cono d’ombra di questa rimozione, può apparire paradossale come in alcune declinazioni della cristianità, quel corpo mortificato, lacerato dalle privazioni, disprezzato, sia lo stesso per il quale si chiede e attende la resurrezione.
Dall’altro canto, la mutilazione dello spirito dalla realtà, la sua riduzione a oggetto di superstizione, la stigmatizzazione di cosa non sia razionale come irrazionale, la riduzione del piano stesso della realtà alla fisicità della materia o alle geometrie della ragione riflette un approccio miope al mondo, quell’approccio per il quale esiste solo cosa si può vedere o capire, che può essere conosciuto solo attraverso le geometrie della ragione umana. Un approccio miope, ma anche profondamente antistorico, quando nega – e in modo pregiudiziale – l’esperienza, tramandata attraverso innumerevoli persone (delle quali non resta neppure il ricordo del nome), di un’umanità fino a ieri vissuta anche dentro l’orizzonte del sacro e della spiritualità, e fa di questa esperienza, ridotta a dato antropologico, qualcosa che può essere archiviato alla “luce” di una razionalità autoreferente e sufficiente a se stessa.
Ma come la caricatura di una persona ne mette in evidenza un solo tratto, un solo aspetto, esagerandolo a discapito degli altri e della figura nel suo complesso, falsandone l’integrità e l’armonia, così lo spiritualismo, per un verso, il materialismo e il razionalismo, per altri versi, restituiscono una caricatura della realtà. L’uno svaluta il corpo, lo rifiuta fino a negarlo; l’altro ne fa un idolo; per il terzo è solo il supporto organico della razionalità nel cui orizzonte è inscritta tutta la realtà, conosciuta o conoscibile, dimostrata o dimostrabile.
All’opposto, l’approccio simbolico, realistico, riconosce la natura complessa delle cose, entro la quale nessun aspetto, materiale o spirituale, è dispensabile, accessorio, e può perciò essere posto in secondo ordine. Materia e spirito sono compresenti, abbisognano l’una dell’altro e l’uno dell’altra.[12] Senza spirito, la materia è inerte e della persona non resta che un fantoccio. Un fantoccio privo di luce. E questa affermazione non è una coloritura poetica, ma un dato di evidenza che chiunque può sperimentare: una visita all’obitorio può aiutare a misurare la distanza tra la persona conosciuta in un corpo vivo e la sua assenza gridata dal corpo spento. E qui misurare che la matrice della bellezza è la luce. La persona più bella, quando è spenta, quando la luce ha lasciato il suo corpo, non è più così bella e solitamente di quella persona resta un fantoccio, una bambola, un cadavere prossimo alla decomposizione. La prova vivente dell’immortalità della luce che ci anima e del fatto che non siamo solo materia organizzata non vive nei sofismi ma diventa evidente sul letto di morte, dove cosa era vivo e bello e attraente non lo è più e spesso si capovolge in qualcosa di quasi irriconoscibile, a volte repellente, a volte addirittura spaventoso.
2. Cosa è “sacro”?
Sak è il recinto:[13] parola di radice indoeuropea che, attraverso l’immagine del recinto, conduce ai significati di “separazione” e “definizione”, perché un recinto chiude, conclude, protegge, separa. Da sak deriva sacer, quindi sacrum: cosa è separato, l’ambito distinto e separato dal nostro mondo, l’ambito che appartiene alla divinità. Lo spazio del tempio è sacro perché appartiene alla divinità. Tutto il resto, tutto ciò che non è sacro, è profano, ovvero, posto di fronte (pro) al tempio (fanum), è cosa non appartiene alla divinità. Reso intenso nella forma sank, la radice ha dato vita a sàncere, da dove viene “sancire” (definire, fissare, concludere, compiere), e al suo participio passato sanctus, da dove viene “santo” (il compiuto, il perfetto).[14]
Osservato nella prospettiva simbolica, dell’unitarietà, il corpo partecipa alla dimensione spirituale (insieme con quella materiale), ed è all’interno di questa dimensione che si manifesta nel suo aspetto sacro, di appartenenza all’ambito divino: è in questa dimensione che prende valore la metafora che lo lega al tempio.
Questa lettura del corpo oggi non è più corrente, non appartiene al senso comune. Il corpo appartiene solo a chi ne indossa il nome o a chi direttamente o indirettamente ne diventa padrone e s’impossessa dei suoi servizi, delle sue funzioni, del suo logoramento. Sul piano della sola materialità, quello che si traduce in posizioni e ideologie che negano realtà alla trascendenza, il corpo è la sua qualità materiale: è carne, è materia organica e sostanza minerale. L’assenza di altri rinvii al suo interno e al suo esterno ne fa un bene assoluto, oscillante tra le polarità dell’idolatria o del disprezzo, oggetto di un desiderio impossibilmente duraturo, mantenuto artificiosamente e a ogni costo in vetrina o, alla peggio, in vita. Dove è considerato l’unica realtà certa, al suo mantenimento, impossibile e ineluttabilmente votato al fallimento, corrisponde il mantenimento stesso della realtà. Il corpo ridotto a carne da imbellettare, da adornare, è la sostanza impermanente di un’ontologia minore, un’ontologia – se mai si potesse dire – dell’apparenza. Ridotto a carne, il corpo è opaco e non può esprimere luce, come dal vetro opaco di una finestra[15] non passa luce e se passa è opalescente.
Non c’è luce negli idoli, e già da questo si potrebbero facilmente riconoscere. Lo star-system confeziona e adorna corpi, e costruisce idoli sull’apparenza, per riuscirci è sufficiente una comunicazione pressante ed efficiente. Poiché, sul piano dell’ontologia, dove non c’è luce non ci può essere bellezza, dov’è la bellezza, consustanziale alla luce, nell’apparenza impeccabile ma opaca di una donna o di un uomo usati come manichino?
Chi pensa che il disprezzo del corpo sia un tratto caratteristico delle correnti ascetiche, non considera adeguatamente quanto disprezzo per il corpo sia espresso nel maltrattamento che se ne fa quando lo si usa come recipiente di sostanze che affaticano, intossicano, ammalano, assunte in forma di cibo, bevanda, fumo, farmaco, per eccitare o deprimere, stordire, alterare, mai nutrire se non in misura marginale. O quanto disprezzo sia espresso nel maltrattamento e nella deprivazione al quale è sottoposto per conquistare o mantenere una snellezza innaturale, deformato fino a diventare un appendiabiti. Il rifiuto del corpo-materia è un atto di fuga dalla realtà, dalla sua interezza e compresenza simbolica, quanto lo è il rifiuto dello spirito.
Il “dibattito sul corpo e l’anima” nel nostro tempo avviene fra quelli che disprezzano il corpo puntando sulla sua resurrezione e quelli che, ammalati di stravaganza corporale e mancanza di esercizio fisico, nondimeno aspirano alla longevità sopra ogni cosa. Questi due gruppi si credono contrapposti, eppure non potrebbero esistere ciascuno per conto suo. Sono incatenati a un conflitto che in realtà non è altro che la loro collaborazione nel processo di distruzione di tutti e due, corpo e anima.[16]
Il disprezzo per il corpo umano, espresso nel suo maltrattamento alimentare quotidiano, nell’incuranza verso le sua semplici necessità di salute e armonia, nella sua riduzione a merce, racconta una modalità di mortificazione diversa da quella attuata nella pratica ascetica ma iscritta nel segno di una medesima negazione. L’aspetto macilento di asceti, igienisti, anoressici, sotto motivazioni differenti, presenta diverse declinazioni di un comune rifiuto di sé attraverso un corpo disprezzato, benché talvolta idolatrato in apparenza. Un rifiuto non così diverso da quello espresso nelle forme dell’incontinenza, dell’eccesso.
La repressione e il maltrattamento del proprio corpo si accompagna alla repressione e al maltrattamento verso gli altri, verso cosa vive, verso la terra che abitiamo: come nota Wendell Berry, nel Corpo e la terra, «il disprezzo per il corpo si manifesta invariabilmente col disprezzo per altri corpi».[17]
E nel corpo usato come recipiente di rifiuti o di veleni, quanto posto resta alla metafora del tempio? Quanta sacralità resta? Butteremmo rifiuti o veleni in un tempio o in uno spazio sacro? Ne storpieremmo la forma canonica, l’armonia, per adeguarlo a un modello astratto, cangiante in conformità alla moda del momento, animato da un’estetica dettata dal mercato?
E in questo discorso sulla sacralità e la forma, la donna che posto ha?
Ha un posto preminente, perché ancora più di quello maschile il corpo femminile qui, in quest’area del mondo, è privato di forma, martoriato dalle privazioni, riaggiustato in ordine a forme progettate “a tavolino”, astratto dai segni dell’età e mantenuto infantile (pretesa impossibile e, a lungo andare, grottesca), confezionato dal mercato, nascosto dalla sua stessa nudità ostentata (quella che ne parla attraverso la mezza verità che riduce il corpo a carne e guscio),[18] compresso, conciato, atteggiato, fatto muovere ed esprimere in modo forzato, ridotto a marionetta, e come quello maschile profanato – di più: dissacrato – dagli scarti alimentari, dal catrame del fumo, dall’abuso alcoolico o farmacologico.
È stato chiesto mai se coloro che corrompono il proprio corpo si vadano a nascondere? E se quelli che insozzano i vivi non siano malvagi quanto quelli che insozzano i morti?[19]
Dentro il profilo della modernità, parlare di sacralità del corpo (più in generale, della persona) pare solo un richiamo romantico, una gradevole evocazione di sentimenti, di desideri, una formula per dare un abito gentile alla confusione. Dove non si fa spazio allo spirito, al divino, non si dà spazio alla sacralità, i templi sono solo edifici, le persone sono solo carne, i simboli sono solo segni. Un recupero realistico delle cose così come si danno, aperto all’essere in ogni sua dimensione che ci è dato sentire, conoscere e condividere, un ritorno alla dimensione simbolica dove essenza ed energia, spirito e manifestazione, idea e attualizzazione, spirito e corpo si incontrano compresenti, impossibili a sussistere l’uno senza l’altro, possono riportare la sacralità in armonia con l’ordine magistrale delle cose senza dimenticare delle cose la materialità, e della materialità la dignità ontologica oltre che esistenziale.
Su un piano simbolico, un piano realistico, un piano di compresenza, si può sperimentare il recupero del corpo dentro la dimensione del sacro. Ma finché si alimenta la divisione, finché i cieli sono mantenuti chiusi alla percezione, finché la trascendenza resta un’ipotesi intellettuale, un sottoprodotto della mente, della ragione, un’astrazione, parlare di sacralità è solo retorica romantica e abito per l’immaginazione.
Che cos’è […] una visione simbolica? Attingere alla realtà fenomenica del mondo senza sigillare gli esseri e le cose nella loro crosta empirica, ma comunicando alla potenza di vita che è in loro e tramite loro si trasmette e lega tutto in una comunione universale.[20]
Possiamo ripensare a questa nostra condizione umana, in un tempo – un tempo lungo – segnato dalle diverse espressioni dello scisma ontologico? Sulla strada del simbolo, della conoscenza integrale,[21] del realismo, la trascendenza e l’immanenza sono compresenti, i due mondi sono compresenti, lo sono lo spirito e la materia, il nascere e il morire, questa vita e l’altra, cosa appare e cosa lo sostiene. Non c’è separazione tra il corpo e l’anima, anzi: la trasparenza dell’anima dona luce e salute al corpo, e, d’altra parte, la semplicità del corpo e di cosa lo riguarda si riverbera nella bellezza dell’anima.
C’è qualcosa nella vicinanza degli uomini e delle donne e nel loro aspetto e nel loro contatto e nel loro odore, che piace molto all’anima. Tutte le cose piacciono all’anima, ma queste piacciono molto all’anima. […]
Se qualcosa è sacro, il corpo umano è sacro.
[22]
⌘
Sak è il recinto, come Kwel è l’aratro,[23] sacro e santo, culto e cultura: sono parole dense di un significato profondo che vengono da parole semplici e parlano di terra e materia. Quando dicono qualcosa di vivo le parole astratte spesso sono generate da qulle concrete; quando invece sono generate da altre parole astratte, spesso non significano molto più del loro suono o delle intenzioni di chi le pronuncia. I sostantivi precedono i verbi. Il fondamento della metafisica è concreto, perché se non c’è terra, non c’è cielo.
Come senza lo spirito ci sono solo fantocci, così in questa vita senza il corpo ci sono solo fantasmi. Senza il rivolgimento e il giro dell’aratro non si comprende a fondo il culto, e senza il culto non si dà cultura. Nel deposito delle parole è segnata la matrice ontologica – e in questa il significato profondo – delle cose. Dyaus è il cielo luminoso, da qui “Dio” (deus) e “giorno” (diurnus). Che sono luce. Il cuore respira nel “coraggio”, nel “cordoglio”, nel “ricordo”, nella “cordialità”. E hum, è forse onomatopeico del soffio? Non saprei dimostrarlo, ma sono pronto a scommettere che è la terra fertile, humus, resa fertile da quel soffio: quella terra congenere all’umidità, all’umanità e alla qualità che all’umanità più si addice: l’umiltà.
Come il seme nel frutto, come la linfa nel ramo, come la luce nello sguardo, così il valore delle idee e di quanto esiste vive dentro le parole che le comunicano; e nell’origine delle parole si manifesta il significato profondo di quanto esiste e di quelle idee: nell’origine delle parole vive e fermenta l’anima delle cose.
BIBLIOGRAFIA
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[1] Whitman 1855 / 1999: 67.
[2] L’aforisma comunemente attribuito a Ippocrate recita: «Il corpo umano è un tempio e come tale va curato e rispettato, sempre».
[3] 1 Corinzi 6, 19: «Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete ricevuto da Dio? Quindi non appartenete a voi stessi».
[4] Giov 2, 19-21.
[5] Abdu’l Bahà (Promulgation, 352), in Savi, 2009: 164.
[6] Guillaume Durand de Mende, Rationale divinorum officiorum, Parigi 1854, in Hani, 1978 / 1996: 58.
[7] Stessa opera: 57 e ss., capitolo 5 (“Il tempio, corpo dell’uomo-dio”.)
[8] Florenskij, 1914 / 2010, lettera I (“Due mondi”); la nozione dei “due mondi” compare più volte nei capitoli precedenti.
[9] “Simbolico”: dal latino tardo symbolĭcus che, a sua volta, deriva dal greco syn-bállō, “getto insieme”, quindi “metto insieme”, “unisco”; “diabolico”: dal latino ecclesiastico diabolĭcus che, a sua volta, deriva, secondo alcuni, dal sanscrito dyāus, “cielo luminoso”, secondo altri, dal greco dia-bállō, “getto di traverso”, dunque “separo”, “calunnio”.
[10] Ne parla Evdokimov, 1972 / 1990: 61, riprendendo F.M. Dostoevskij.
[11] La critica al modo “astratto” (opposto al modo “simbolico”) di conoscere il mondo, affine al razionalismo e proprio della modernità, permea ampia parte del pensiero di Florenskij. Un punto di vista contemporaneo, affascinante e per me persuasivo, sulla costruzione ideologica della vita quotidiana sotto il segno dell’“astrazione”, in Mathews, 2005.
[12] La reciproca necessità di spirito e materia è stata messa in valore dalla sintesi teologica di Gregorio Palamas che li vede consustanziali nella relazione tra ousia ed energheia: l’essenza non può fare a meno della sua manifestazione che a sua volta nell’essenza ha la propria radice ontologica. Commentando l’insegnamento di Palamas, Florenskij (1921 / 2003: 83) osserva: «In Dio esiste, accanto all’Essenza [ousia], anche l’attività [energheia], l’autorivelazione, l’autopresentazione della sua Divinità. […] Dove esiste in effetto, esiste anche la causa dell’effetto, e un effetto rivela attraverso sé stesso l’essenza, e viceversa». Su Gregorio Palamas e la riflessione esicastica: Choruzij, 2005.
[13] Benveniste, Lallot, 1969 / 1976.
[14] Per un’ampia discussione sull’origine di “sacro”: Morani, 1981.
[15] L’immagine della finestra che fa passare la luce, e la fa passare anche nei due sensi, e mette in comunicazione l’esterno con l’interno – racconta Florenskij in Iconostasi (1922 / 2008: 48) – è metafora della funzione di tramite e contatto del simbolo.
[16] Berry, 1977 / 1981: 26.
[17] Stessa pagina.
[18] Sul corpo vuotato, ridotto a guscio, a larva: Florenskij, 1921 / 2008: 38. Altrove ci dice: «Le vesti non velano ma svelano un corpo splendido, e lo fanno, tra l’altro, in un modo ancora più splendido, rivelandolo nel suo casto pudore. Al contrario, un corpo denudato sfacciatamente si chiude alla conoscenza, poiché ha perso la partita con il proprio pudore, che è di fatto la misteriosa profondità della vita e la luce dal profondo», citato in Rupnik, 2010: esergo.
[19] Whitman 1855 / 1999: 67. «Was I doubt that those who corrupt their own bodies conceal themselves? And if those who defile the living are as bad as they who defile the dead?».
[20] Rupnik, 2010: 219.
[21] Una conoscenza integrale è il tiolo dell’opera che Tomáš Špidlík e Marko I. Rupnik dedicano alla “via del simbolo” (2010).
[22] Whitman, 1855 / 1999: 71. «There is something in staying close to men and women and looking on them, and in the contact and odor of them, that pleases the soul well. All things please the soul, but these please the soul well. […] If any thing is sacred the human body is sacred».
[22]
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[23] Angelini, 2012.