Massimo Angelini
L’OCCHIO E IL CANTO[1]
Ivàn Illich, quando ha ricostruito la storia dello sguardo, ha raccontato in che modo, sugli spartiacque della storia – quelli che hanno separato e, insieme, unito il mondo antico, l’era cristiana fino alle soglie del Rinascimento, la modernità e, in epoca recente, il suo superamento nel regno virtuale che anima l’era cibernetica –, è mutata radicalmente la concezione del modo di mettersi in relazione con le cose e le loro immagini attraverso la vista e la luce. Ne troviamo testimonianza in diversi interventi, tra questi ricordo: Sorvegliare il proprio sguardo nell’era dello “show”,[2] Passaggio scopico ed etica dello sguardo: Apologia in difesa dello studio storico della percezione oculare,[3] Il vangelo e lo sguardo.[4]
In alcune epoche, Illich riconosce modi differenti modi di intendere lo sguardo e l’atto del vedere e, con essi, i segni dei tempi che cambiano. Li riconosce nelle parole scritte nel I secolo da Paolo di Tarso che nella lettera ai Colossesi definisce Gesù “immagine” del Dio invisibile: concetto scandaloso per quella concezione ebraica di Dio nella quale s’innesta la stessa rivelazione cristiana; nell’editto (726) con il quale Leone III Isaurico vieta le raffigurazioni della divinità e apre la disputa sull’iconoclastia; nella decisione conciliare di Nicea (787) che accoglie la giustificazione delle icone presentata da Giovanni Damasceno – le icone non sono immagine di Dio e, perciò, strumento d’idolatria, ma simbolo, finestra tra il mondo visibile e quello invisibile – e chiude quella disputa; nella scoperta delle proprietà dell’immagine riflessa fatta da Al Hazen (+1038) che per primo osservava che non vediamo le cose ma solo la loro luce; nel modello fisiologico teorizzato da Renée Descartes, nel secondo quarto del Seicento, che adegua la concezione del corpo alla metafora della macchina e fa dell’occhio una camera oscura; nelle invenzioni del dagherrotipo – l’antenato della fotografia – e dello stereoscopio – che permette l’illusione tridimensionale – nel corso del secolo XIX; fino alla contemporanea digitalizzazione che termina di ridurre l’immagine, separata definitivamente dalla materia e dal corpo, a una sequenza numerica basata su un calcolo binario.
Tra questi diversi momenti di passaggio, uno – la scoperta di Al Hazen – s’impone con particolare rilevanza, perché per la prima volta è presentato un modo d’intendere la direzione dello sguardo radicalmente diverso da quello che fino a quel tempo (siamo nel secolo XI) è comunemente accettato. Lo sguardo, fino ad allora pensato proteso all’esterno come un arto prensile – psychopodium – da allora, e sempre più nel procedere del tempo, sarà inteso come un facoltà non più attiva ma solo ricettiva: non più arto prensile, ma camera oscura e, più tardi, lastra fotografica.
Questo nuovo modo, oggi per noi del tutto abituale, scontato per l’evidenza della comune rappresentazione del mondo, è impensabile nel tempo della cristianità medievale che conosce uno sguardo che “esce” dall’occhio e si proietta fino a posarsi sulla cosa guardata, fino a toccarla, talvolta fino a ricondurla a sé. È la luce dello sguardo che fa esprimere alla cosa guardata i suoi colori. E da questo ruolo attivo dell’occhio, capace di emettere uno sguardo che tocca, uno sguardo prensile, resta traccia nel deposito delle parole arrivate fino a noi, dentro alcuni modi colloquiali, così abituali da sfuggire all’attenzione; si dice, infatti: “cogliere un dettaglio”, “afferrare con lo sguardo”, “acarezzare/ferire con lo sguardo”, “prendere visione”, “posare gli occhi”, “un colpo d’occhio”, ma anche “intravedere”, “vedere attraverso”, proprio come può fare “uni sguardo penetrante”.
A inversione compiuta – siamo nel pieno XVII secolo – l’occhio non è che la matrice sulla quale va a imprimersi la luce inviata dalla cosa guardata.
Le immagini penetrano nella mente e la imprimono come una matrice, guidano i pensieri e le passioni, suscitano emozioni. E che queste, le più intense o violente provate dalle donne durante la gravidanza, a volte portino conseguenze al figlio in gestazione, è stato e ancora oggi è un sapere diffuso e condiviso, più di quanto si avrebbe la tentazione di ammettere.[5]
Se lo sguardo “tocca”, allora impone responsabilità, dev’essere esercitato con misura e assoggettato a disciplina. In tempi oggi remoti, possiamo e dobbiamo scegliere cosa, come e quanto toccare con lo sguardo; ancora nel 1905, il catechismo di Pio X ci parla di disciplina degli occhi e della necessità di essere “casti e modesti” negli sguardo, esattamente come bisogna esserlo “negli atti, […] nel portamento e nelle parole”. [6]
Nell’ethos della modernità tutto questo è più sfumato: è la luce riflessa delle cose che può penetrare il nostro sguardo e agire sulla nostra retina, lasciandoci la sola responsabilità di aprire, chiudere o distogliere i nostro occhi ormai ridotti a un ruolo passivo.
Lo sguardo attivo dell’uomo medievale, quello sguardo che spiega il malocchio e l’azione magica eseguita con gli occhi, ma anche – vedremo – l’affascinazione, nella modernità perde senso a favore di un modello fisiologico (che è pure un modello morale) nel quale è l’immagine che penetra in noi e oggi esonda nella nostra mente e nei nostri cuori carenti di difesa, noi soggiogati in un ambiente denso di immagini senza corpo, e per certi aspetti conniventi come prigionieri affetti dalla sindrome di Stoccolma.
Così acquietati sul valore passivo dello sguardo ridotto a impressione sulla retina, scordiamo il modo antico che dello sguardo ci parla come di un’attività capace di toccare, incidere, modificare cosa tocca, allontanare o portare a sé (sedurre).
L’inversione del modo di pensare e comprendere lo sguardo, nel passaggio tra XIII e XIV secolo corrisponde all’inversione della prospettiva – prima rivolta su di noi dal fondo impenetrabile dell’icona, poi “lineare” e orientata su un astratto punto di fuga – e corrisponde al conseguente scisma nell’arte che ha separato la via dell’icona sacra della cristianità orientale dall’arte religiosa figurativa di quella occidentale. Ne fa cenno Illich, ma con altro più dedicato approfondimento ne ha parlato Pavel A. Florenskij che proprio nel capovolgimento della prospettiva, più che in altri aspetti, ha letto il passaggio dalla concezione medievale del mondo a quella moderna.
Su queste riflessioni, apro un breve sentiero di approfondimento.
Lo sguardo parte dal cantus, lo spazio compreso tra le due palpebre, in greco kanthòs, che significa proprio l’orbita o l’angolo dell’occhio. Prima “angolo”, poi nel tempo, per estensione di significato, canto vorrà dire anche “lato”, “parte” (“d’altro canto”, “dal canto mio” …). Potrebbe discendere da qui incantare, “portare nel cantus”, ovvero “cogliere”, così come in un campo si colgono i frutti, dopo avere fatto un fascio (da qui fascinare) del raccolto che si vuole cogliere e portare con sé. Il fascino si esercita con gli occhi. Non l’oggetto, ma l’occhio che lo guarda è “affascinante” (oggi non sono affascinanti né l’occhio, né l’oggetto, ma l’immagine: sia che nasca nella nostra mente e corrisponda a una fantasia, sia che nasca fuori dalla nostra mente pur senza corrispondere a un corpo, come succede nel tempo della vitualità).
Il raccolto affascinato può essere excantato,[7] portato fuori dal cantus del campo, quindi incantato, portato nel proprio cantus, portato a sé, sedotto.
Lo scrittore Giovanni Lisi, a lui dobbiamo descrizioni impareggiabili di oggetti e significati del mondo contadino, ne La gabbia matta domanda se, per analogia, sia lecito sovrapporre il cantus, l’angolo dell’occhio, al cantus, participio passato di cànere, “cantare”. I repertori di etimologia finora incontrati non dicono nulla che autorizzi a sostenere senza forzature quest’analogia attraverso una radice comune. Tuttavia tra le XII Tavole s’incontra ancora una volta l’incantesimo nell’espressione qui malum carmen incantassit – chi incantò con un canto malvagio – dove il legame con il canto vocale, il carmen, è esplicito. Del resto anche Seneca (Naturales quaestiones, IV, 7) e Ovidio (Amores, III, 6) avevano accostato il fruges excantare all’atto del cantare.
Ci sono parole che nascono da una radice comune, poi nel tempo divergono e, nel mutamento della forma, dissimulano ogni reciproca parentela, forse per non incontrarsi più. Basti pensare a quanto sia difficile, oggi, riannodare “cultura” e “culto”.[8] Ma ci sono anche parole – forse è questo il nostro caso – che pare provengano da origini distanti, forse ignare l’una dell’altra, e nel tempo arrivano a coincidere nella forma e nel suono. Come quegli alberi che s’incontrano, s’innestano e, indistinguibili da un certo punto in avanti, danno frutto comune e invecchiano come una sola pianta. In fondo questo è cosa succede agli uomini e a cosa vive.
Si può supporre che cantus, quello dove risiede lo sguardo, e cantus, quello generato dalla voce, si siano incontrati nel significato mediati dall’equivalenza di forma e suono? L’analogia è forte: s’incanta con gli occhi, ma anche con la voce. Il canto vocale delle sirene incanta i marinai, li rende ebeti e li porta al neufragio, ma non funziona con quelli di Ulisse che si chiudono le orecchie con la cera.[9] Ma c’è un’altra analogia – oltre al potere dell’incantesimo – che, nel segno del passaggio alla modernità, accosta le due parole unite nella stessa forma.
Come sull spartiacque dei tempi, nel tramonto del medioevo, s’inverte l’azione dello sguardo, così – ancora insegna Illich -[10] mutano alla radice la forma e la consuetudine della lettura. La lectio divina, la lettura resa con la voce, intesa come “incarnazione della parola di Dio nella voce del lettore, logos fatto carne nell’orecchio del credente”, nel tempo è affiancata dalla lectio scholastica, la lettura ad alta voce fatta a beneficio di altri, e, quindi, dalla lectio spiritualis, la lettura interiore, silenziosa, fatta solo con gli occhi, senza più la voce. Lettura disincarnata, perché la voce è il corpo della parola, così come la forma materiale della quale l’occhio va a cogliere l’immagine lo è della luce. Illich segnala la compresenza delle tre lectiones, preludio del progressivo spostamento verso la forma disincarnata, nell’espressione di Ugo di San Vittore (1126): “Ci sono tre forme di lettura: con le mie orecchie, con le tue, e nella contemplazione silenziosa”.[11]
Il passaggio alla lettura mentale, quella alla quale ormai siamo abituati fino a considerarla l’unica agibile, ha tolto il corpo alla parola, ne ha mantenuto il solo involucro concettuale, ha contribuito a fare progredire due processi – la frammentazione e la perdita del contesto – che, se potessimo esprimerci nei termini della patologia clinica, potremmo connotare come “schizofrenia” e “autismo”.
Come lo sguardo si è ritirato sulla retina e, ancora più al suo interno, ha imparato a rinunciare alle cose in favore delle loro immagini, così la parola scritta è stata disincarnata. Entrambi, lo sguardo e la parola scritta, hanno progressivamente smarrito – e noi con loro – il contatto materiale, concreto, così contribuendo ad allargare la scissione tra cosa riguarda la materia e cosa riguarda la nostra interiorità, come se potesse esistere una dimensione della materia priva d’interiorità o una dimensione d’interiorità estranea alla materia.
E avanti di questo passo: come nel procedere del tempo lo sguardo reso passivo rispetto alle immagini nell’era della virtualità è diventato uno sguardo interno di immagini senza corpo, così la parola scritta è diventata oggetto di una tecnica del tutto interiore, che si esercita solo per sé stessi, senza contatto con nient’altro di esterno oltre alla pagina del libro. Nel silenzio della nostra interiorità convivono immagini sempre più spesso prive di un corpo e una lettura interna (analoga al pensiero fra sé e sé) che non richiede altro contesto fuori dal senso di sufficiente benessere nel quale ce la concediamo. In altri termini – in termini florenskijani – questa è l’eco della storia della frammentazione, della scissione tra corpo e spirito, della spaccatura di un modo simbolico, cioè unitario, integrale, di concepire la realtà e noi al suo interno. È su questa frattura, su questi rivolgimenti che la segnano e la manifestano, che s’innesta la modernità, rovesciata al proprio interno fino alla completa perdità dei sensi, all’insensibilità al contesto – mascherata dalla sensazione di benessere, dallo stordimento, dalla distrazione – fino all’autismo che sotto le soglie della patologia conclamata potremmo dire che oggi è sfondo comune.
Potremmo definire questo processo nei termini di una “storia della disincarnazione”, e nell’orizzonte del cristianesimo potremmo definirlo come il “rigetto dell’Incarnazione”, e parlare di un distacco dalla materia che ha contribuito a un più generale movimento di dissociazione, di chiusura al mondo, di io progressivamente rinserrati in sé come monadi blindate, come arcipelaghi di solitudini.
Così, Illich conclude, potremmo arrivare a dire che “ai giorni nostri, la pratica della lectio divina fa della lettura un atto culturalmente sovversivo”.[12]
[1] Intervento al II seminario di studi illichani, Senigallia, AN, 2 settembre 2012.
[2] Sorvegliare il proprio sguardo nell’era dello show [Garding the Eye in the Age of Show, 1995], in La perdita dei sensi, a cura di G. Pucci, Lef, Firenze 2009. Del saggio esiste una traduzione con il titolo Proteggere lo sguardo nel’era dello show, a cura di P. Perticari, Manifestolibri, Roma 2003: 87-118.
[3] Passato scopico ed etica dello sguardo: Apologia in difesa dello studio storico della percezione oculare [The Scopic Past and the Ethics of the Gaze: A Plea for the Historical Study of Ocular Perception, 1995], in La perdita dei sensi, cit.
[4] Il Vangelo e lo sguardo [The Gospel and the Gaze], in I fiumi a nord del futuro: Testamento raccolto da David Cayley, a cura di M. Ventura Avanzinelli, Quodlibet, Macerata 2008: 92:119. Spunti tratti da questo capitolo sono ripresi in I.I., Pervertimento del Cristianesimo, a cura di F. Milana, Quodlibet, Macerata 2012: 68 e successive.
[5] Inizia così un resoconto sulla storia del potere attribuito alle immagini e all’immaginazione delle donne in gravidanza sulla conformazione e l’aspetto del feto. M. Angelini, Le meraviglie della generazione, Mimesis, Milano-Udine 2012.
[6] Catechismo maggiore (1905), articolo 428.
[7] Qui fruges alienas excantavit … è l’apertura di un reato capitale descritto nella Legge delle XII Tavole (tab. VII, cap. III) che consisteva nel portare via le messi dal campo mediante un incantesimo.
[8] M. Angelini Dalla cultura al culto, Nova Scripta, Genova 2012.
[9] Odissea, XII, 39-46.
[10] Nella vigna del testo e Lectio divina.
[11] Nella vigna del testo.
[12] Lectio divina: 176.